CRONISTORIA
È solo da pochi anni che la psicopatologia grave della fanciullezza viene esaminata con la considerazione e la rilevanza di cui è merita, in quanto depositaria di numerose informazioni sui meccanismi psicomentali legati allo sviluppo dell’individuo. Potremmo in prima analisi ripartire la storia della psicosi in tre periodi:
1.preistorico– la clinica era alla ricerca di forme infantili di schizofrenia sul modello dell’adulto: demenza precocissima, demenza infantile, schizofrenia infantile. Si delinearono però due difficoltà inerenti a quella continuità metodologica
2. storico– rappresentato in modo paradigmatico dalla descrizione dell’autismo infantile di Kanner L. nel 1943. Kanner descrisse i suoi pazienti come tendenti all’isolamento, autosufficienti, felicissimi se lasciati soli, “come in un guscio”, poco reattivi in ambito relazionale. La maggior parte di loro comparivano muti o con un linguaggio ecolalico, alcuni presentavano una caratteristica inversione pronominale (il TU per riferirsi a loro stessi e l’ IO per riferirsi all’altro), una grande quantità possedevano una paura ossessiva che avvenisse qualche mutamento nell’ambiente circostante, mentre altri mostravano distinte abilità molto sviluppate. Kanner con lo studio degli undici bambini aveva ipotizzato "un’innata incapacità a comunicare" degli autistici quale causa di tale comportamento di chiusura (2). Da tale prima ipotesi l’autore si allontanò negli anni seguenti. Kanner e suoi collaboratori, partendo dall’analisi delle famiglie che si sottoponevano alla loro attenzione, operarono una deduzione alquanto avventata: – i genitori (in particolare la mamma), troppo "freddi, distaccati e perfezionisti, privi di senso dell’umorismo e che trattavano le persone sulla base di una meccanizzazione dei rapporti umani", fossero, con il loro comportamento, la causa dell’autismo dei figli. Kanner, tuttavia, non aveva tenuto conto che le famiglie che giungevano alla sua attenzione non raffiguravano affatto la generalità delle famiglie con casi di autismo, ma solo una esigua parte di esse. A questa descrizione facevano riferimento generale situazioni cliniche caratterizzate da quadri semiologici non rigorosamente definibili, come ad esempio la psicosi infantile precoce non autistica, la psicosi simbiotica descritta da Mahler nel 1969, la psicosi ad espressione deficitaria esposta da Misès nel 1970 e l’autismo secondario regressivo di Tustin nel 1977 etc). tuttavia tutte queste descrizioni si riferivano più o meno a un concetto che mirava ad unire le psicosi infantili attraverso le descrizioni in termini psicodinamici di “un nucleo psicotico” o di un funzionamento psichico supposto arcaico. Questo fu il periodo della formulazione di un concetto accentrato della psicosi infantile. 3.di critica– comincia questo periodo di crisi verso la fine degli anni Settanta con la pubblicazione delle classificazioni a livello internazionale dell’ICD e del DSM, dove si mettono in rilievo molteplici diagnosi differenziali che portano alla differenziazione dell’autismo tipico e della psicosi infantile (a questo punto designate come Disturbi Generalizzati Dello Sviluppo).
DEFINIZIONE
Solo dal 1980, con la pubblicazione del DSM-III (APA, 1980), che il disturbo autistico viene incluso in una classificazione diagnostica come entità clinica separata ed indipendente. La parola "autismo" deriva dal greco "autús" che significa "se stesso” e, come malattia o modello particolare di struttura psichica, si mette in evidenza drammaticamente per l’isolamento, l’anestesia affettiva, la scomparsa dell’iniziativa, le difficoltà psico-motorie, l’inefficace sviluppo del linguaggio. Correlata a queste espressioni, di per se già disturbanti e fortemente disabilitanti, gli autistici esprimono una notevole incontinenza emotiva che si espleta con urla, corse afinalistiche, ipercinesie, a volte aggressività, angoscia e terrore. Il disturbo autistico con la pubblicazione del DSM-IV viene inserito fra i disturbi generalizzati dello sviluppo, vale a dire fra quei disturbi caratterizzati da una grave e generalizzata compromissione in differenti aree dello sviluppo. Se questa sindrome è stata presentata come relativamente omogenea, la realtà clinica ne rileva tuttavia la relativa diversità e mutevolezza (4). Tuttavia risultano essere di costante riscontro:
LA TEORIA DELLA MENTE
Alla fine degli anni ’80, Uta Frith ipotizzò che l’autismo deriverebbe da una disfunzione cognitiva che comporterebbe un’incapacità di rendersi conto del pensiero del prossimo, sarebbe privo cioè di una “teoria della mente”. L’autrice riferisce che l’autismo si stabilirebbe su un’incapacità di attribuire all’altro stati mentali come apprendimenti o credenze con una conseguente compromissione dei processi di mentalizzazione da cui risulta un pensiero concreto, stabilito unicamente su situazioni della realtà direttamente rilevabili. La teoria della mente si riferisce all’incapacità di capire che gli altri individui hanno il proprio personale punto di vista verso del mondo. Molti soggetti autistici non capiscono che altri possano avere idee, piani e visioni diverse dalle loro (5). Ad esempio, i teorici della mente raccontano di una bambina, A. che volle fare uno scherzo alla sua amica di gioco S. La bambina (A.) infatti, che aveva da poco notato uscire l’amica dalla camera dopo aver messo al sicuro in una scatola la sua pregiata biglia, si serve di questa assenza per sottrarre la pallina dalla scatola e nasconderla in un cesto. S. rientra ed ha intenzione di giocare nuovamente con la biglia. Al bambino, che dello sceno-test, ha osservato per bene tutta la sequenza degli eventi l’adulto chiede: – Dove andrà S. a prendere la sua biglia? ·Se il bambino sarà in grado di comprendere che per S. la pallina si trova nella scatola dove l’aveva riposta precedentemente e sarà li ovviamente che andrà a recuperarla. Tale risposta dimostrerà che il bambino ha sviluppato la comprensione delle domande, la capacità di attribuire agli altri credenze, intenzioni, desideri, memoria, percezione ed ogni altro atteggiamento proposizionale. ·Se il bambino invece sarà in grado di rispondere che la biglia verrà ricercata nel cesto, ossia dove realmente si trova e non dove S. crede sia, tale soluzione dimostrerà che il bambino fallirà in questo compito attestando così la mancata acquisizione della capacità di attribuire stati mentali ad altre persone. I ricercatori assicurano che i bambini fino all’età di tre anni falliscono in tale problem-solving (normalmente il compito viene risolto solo raggiunto il quarto anno di età) e che per i soggetti autistici questa età deve essere prolungata fino a sette-otto anni. Inoltre tali studiosi attestano che la comprensione delle credenze che riguardano altre credenze compare normalmente a sette anni, mentre solamente (e non sempre) nel bambino autistico nell’età adulta Questo esperimento che appare alquanto chiaro e che dovrebbe esemplificare il paradigma della Teoria della Mente, ha quel tanto di fascino capace di “mimetizzare” un vizio di fondo, che mette in dibattito tutto il sistema delle credenze. Perchè le condizioni di verità del sistema “teoria della mente” sono definite utilizzando elementi di un sistema affatto incommensurabile come quello del linguaggio (6). Secondo numerosi autori la teoria della mente si strutturerebbe intorno ai 12-13 mesi e che ciò avvenga attraverso la comparsa di due precursori: la capacità di rappresentazione condivisa e di comunicazione intenzionale. Queste funzioni risultano deficitarie nei bambini autistici allo stesso modo di altre funzioni più evolute, come attuare e comprendere giochi di finzione e riconoscere false credenze.
LA LEGGIBILITA DEL LINGUAGGIO “SUPERIORE”
Per quanto riguarda il “linguaggio e la comprensione” del bambino autistico, non possiamo mettere in discussione la constatazione della sua incapacità di decodificare una frase in cui è indicata la menzione di una citazione o non possiamo definire opinabile l’esistenza di un linguaggio per lui oscuro (6). Sicuramente è di notevole importanza che il bambino comprende comunque qualcosa, pur magari rispondendo in modo sbagliato. Allora bisogna far ATTENZIONE! Il fallimento pur esistente dimostra che vi è un errore di razionalità, non l’assenza di razionalità. Che forma di linguaggio “superiore” decodifica sulla base dell’intenzione di verità che egli mette in atto? Donald Davinson, a tal proposito, ha scritto che il livello più singolo di un sistema astratto-complesso che è il linguaggio è documentato dal possesso di un vocabolario finito, costituito dai nomi propri e dai predicati. Il linguaggio, non risentendo e non avendo bisogno di connettivi funzionali, non ci impone di recuperare relazioni tra le “parole” e “le categorie del mondo” . Il linguaggio quindi è concluso da una semantica elementare e da un numero finito di enunciati (7). Partendo dai presupposti sopra menzionati, potremmo sostenere che il bambino autistico comprende di una frase complessa, almeno due elementi costitutivi di base: il nome ed il predicato. Se prendessimo come riferimento il racconto precedente della bambina A., potremmo dire che il nome si riferisce alla pallina mentre il predicato al suo esserci, al posto spazio-tempo che essa sta occupando, quindi -> dove la pallina si trova al momento.
Bibliografia
- 1.DUCHE’ D.J., 1990, Histoire de la psychiatrie de l’enfant, P.U.F., èd., Paris. 2. SORESI ., 1998, Psicologia dell’handicap e della riabilitazione, Il Mulino, Bologna.
- 3. BETTELEHEIM B., 1990, La fortezza vuota. L’autismo infantile e la nascita del sé, Garzanti, Milano.
- 4. LAPIERRE A., 2001, Dalla psicomotricità relazionale all’analisi corporea della relazione, Armando, Roma. 5. SCALA A., 1998, L’agire riabilitativo. Manuale di riabilitazione psicosociale, Il Pensiero Scientifico, Roma.
- 6. SERGI S., 2003, Teoria della mente e Autismo: quando la psicologia del pensiero si avventura nel campo minato dell’ontologia, Contributo alla giornata di confronto su Diagnosi precoce e presa in carico delle sindromi da alterazione globale dello sviluppo psicologico, Firenze.
- 7. DAVIDSON D., 2001, Soggettivo, intersoggettivo, oggettivo, Raffaello Cortina, Milano.