La crisi dei confini
“Il rischio del nostro tempo – in una società in via di globalizzazione – è che all’indipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze”
M. Menditto
L’interazione etica, questa dimensione purtroppo dimenticata negli ultimi decenni, in nome del progresso e del benessere economico, sarà l’elemento ispiratore della presente riflessione, nella quale cercheremo di interrogarci sui malesseri che affliggono la persona in quest’era globale, ormai sotto scacco. L’etica, come sappiamo, è lo studio dei costumi e delle abitudini tra le genti o, come affermava Aristotele nell’Etica Nicomachea, è la filosofia che si occupa del bene dell’uomo ovvero la sua felicità. Eppure, l’uomo attuale, ponte tra due millenni, così ambizioso, così performante, così libero, non sa quasi nulla di felicità e appare mortalmente stanco, incapace di riconoscere le vere fonti per il suo benessere. L’individuo postmoderno, come un albero malato, affonda le sue radici in un ground impalpabile, senza più sostanza, un terreno divenuto sterile per il diniego della relazione e per l’incapacità di pensare ad un reale spazio condiviso. La smania di indipendenza, alimentata dagli illusori modelli conformistici, delle politiche neoliberiste, hanno posto le condizioni per lo sgretolamento del tessuto sociale, esaltando l’autonomia dell’individuo a scapito della dimensione collettiva. Il XX secolo è stato la culla delle nuove tecnologie mediatiche “ispirate” dalla comunicazione senza più frontiere, in cui l’individuo ha assistito, paradossalmente, al suo progressivo isolamento, un isolamento collettivo costantemente monitorato dai social network.
Bauman afferma che l’individuo globale è confuso, perso tra una miriade di sconosciuti senza volto, in posti che non sono luoghi abitabili, e in un tempo così veloce che non scorre più. La svalutazione esistenziale dell’uomo attuale sorge dall’impossibilità di respirare a fondo le esperienze in quanto non esiste più uno spazio temporale che le possa scandire. Ma come poter slargare questo tempo, ridare spazi umani alla persona, se lo scopo dei mass media è proprio quello di annullare le barriere spaziali e annichilire i naturali limiti temporali? I mezzi di comunicazione, così semplici da utilizzare e così incredibilmente potenti, fondono e confondono, istantaneamente, i confini di ciò che è dentro e ciò che è fuori l’uomo, dando vita ad una realtà psicotica; James Hillman scrive: “la minaccia del suicidio è una confusione di interno e di esterno”. In un mondo di soli diritti in nome di appagamenti sempre più illusori, la libertà diviene una condanna (J. P. Sartre); siamo condannati a cercare angosciosamente un qualcosa che possa cambiarci in altro. La trasformazione da risorsa diviene una spirale compulsiva, una rigidità. All’assenza del padre, che ha caratterizzato il secolo scorso, si è aggiunta, in questi ultimi decenni, lo svilimento della dimensione femminile come vitalità accoglitiva e contenitiva. Zarathustra, più di un secolo fa, diceva: “Qui c’è poca virilità: per questo le loro donne si virilizzano. Perché solo chi è veramente uomo, potrà nella donna – liberare la donna”. La crisi dei confini è soprattutto uno spaesamento dell’identità, una confusione di genere, il disordine delle potenzialità della persona umana. Il cittadino globale sembra incapace di contenere le proprie angosce poiché il linguaggio postmoderno è oramai impoverito di nuances create dalla traità originaria – madre-figlio; oggi appare sempre più sofferente il campo relazionale perché quel rapporto si è rivelato sofferente.
Precedentemente, si è accennato alla parola crisi. E’ tra le più utilizzate in questi ultimi anni. Si parla oramai di crisi della crisi, come se la sua accezione pessimistica, sia insufficiente a tratteggiarne i tratti più neri. La crisi descritta dai mass-media, è una specie di peste, che può contagiare chiunque, e chi ne viene colpito direttamente rischia persino la morte. Basta guardare le rassegne stampa degli ultimi mesi: “La crisi uccide” e “Un altro morto per la crisi”. Eppure la sua etimologia esprime anche e ben altro. Albert Einstein, ad esempio, sul significato di crisi ci dice: “E’ la migliore benedizione che può arrivare a persone e Paesi. La creatività nasce dalle difficoltà nello stesso modo che il giorno nasce dalla notte oscura. È dalla crisi che nasce l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i propri insuccessi e disagi, inibisce il proprio talento e ha più rispetto dei problemi che delle soluzioni. Senza crisi non ci sono sfide, e senza sfida la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non ci sono meriti. È dalla crisi che affiora il meglio di ciascuno, poiché senza crisi ogni vento è una carezza.”
Una modificazione nella percezione della parola “crisi” potrebbe aiutarci a cambiare, non solo il nostro stato d’animo, ma persino la nostra situazione economica. Con questo non vogliamo certamente insinuare che la crisi sia soltanto psicologica, come qualcuno affermava fino a poco tempo fa, ma che una corretta informazione e un maggiore contenimento da parte degli organi di comunicazione ci preserverebbe da ciò che viene definito l’effetto domino, e cioè la conseguenza che le notizie dei suicidi da crisi economica, se presentate in modo sensazionalistico, hanno sull’opinione pubblica, provocando altri suicidi. Come sappiamo, la parola crisi deriva dal latino crisis, proveniente dal greco krísis, ed è affine a “cernere”, ovvero “scegliere, vagliare”. Oggi questo verbo è poco usato, mentre è più comune uno dei suoi composti come: discernere = vedere distintamente. La crisi è, dunque, un momento in cui si dovrebbe trovare la forza e la sapienza di sospendere l’inquietudine dello spirito, come direbbe Pessoa, e lasciare che lo scorrere dell’acqua si plachi per osservarne il fondo, come pensava Sören Kierkegaard.
Il suicidio non è un atto misterioso compiuto da un individuo apparentemente in salute, ma spesso è una complicazione di una patologia mentale il più delle volte trattabile. Alcuni studi hanno evidenziato come le notizie circa un suicidio possono indurre un aumento del comportamento suicidario, soprattutto quando questi vengono enfatizzati, ripetuti o descrivendo il metodo di suicidio utilizzato; le due categorie particolarmente vulnerabili a questo tipo di condizionamento sono i giovani e gli anziani. La maggior parte dei resoconti forniti dai media circa i suicidi omettono di informare adeguatamente circa la patologia psichiatrica di cui la vittima era affetta. I media possono non rendersi conto di quanto sia facile fornire tutti gli “ingredienti necessari per un suicidio” a coloro che in quel momento sono particolarmente vulnerabili. Eppure, la conclusione è sempre la stessa: situazioni fin troppo reali vengono divulgate e si inseriscono con una facilità estrema nel contesto socio-culturale della massa, divenendo modelli di soluzione.
La perdita della sicurezza economica, dell’immagine sociale o gli stenti di una situazione di precarietà sicuramente rappresentano dei fattori di malessere esistenziale e hanno messo a nudo i limiti dell’individuo del terzo millennio, ma queste tragedie non possono essere addebitate esclusivamente alla depressione economica, alla defaiance dei beni posizionali. Già Émile Durkheim aveva rinvenuto nella crisi in sé, come cambiamento dello status quo, la causa dell’incremento dei suicidi; ed infatti, in Finlandia, durante il boom economico ed urbano fra il 1965 e il 1990, paradossalmente, il numero dei suicidi triplicò.
Concludiamo questo breve excursus esattamente da dove eravamo partiti ovvero: l’etica della convivenza umana e il perseguimento del bene ultimo collettivo. L’unica soluzione possibile da opporre alle crisi capitalistiche ci sembra sia quella di ripartire dall’uomo, dal fascino e dal tremendo rischio che esso reca, e di popolare il mondo con persone più attente al prossimo e di indurre la gente a prestare più attenzione agli altri. Alla nuova legislazione economica bisognerà affiancare una rieducazione morale, con la convinzione che l’identità nasce dall’atto di riconoscimento del suo essere per l’Altro (E. Lévinas). Da molti anni la Gestalt Psicosociale® è all’avanguardia in questa ricerca e in questa prassi, congiungendo la cultura materiale e quella immateriale, attraverso il rapporto autentico, la condivisione del sentire, la sacralità del dialogo, cercando di colmare quel ritardo culturale per cui l’indifferenza sociale e i timori endemici hanno ancora la meglio sull’individuo. Ciò nonostante, il rispetto di tutti i valori dell’essere umano, della sua forza interiore, e soprattutto la comprensione autentica della sua sconfinata debolezza, assumerebbero un significato ancora più fondante se la psicologia e la psicoterapia avessero il coraggio di stabilire un incontro con le persone nel contesto in cui vivono, soffrono e sperano (come ad esempio le life focus communities); trascendendo i loro ambiti tradizionali di applicazione, in qualche modo divenuti impersonali e a volte insufficienti, per orientare la propria missione in luoghi viventi, delle αγορά in cui respirare la relazione, significherebbe, per queste discipline, proporsi in un ruolo sia politico che culturale, che certamente gli spetta. Noi pensiamo che una trasvalutazione dei valori attuali, generata dal confronto tra tutti i saperi che si occupano dell’esistenza della persona, dall’antropologia all’ingegneria, sia possibile; una morale pristina che contagi, fin da piccoli, con il suo essere con e per gli altri, l’indifferenza dell’individuo globale.
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