Vista la difficile concettualizzazione del tempo e della sua analisi ed esplicazione oggettiva, risulta quanto meno difficile anche una relativa solida indagine di ricerca mirata alla sua comprensione nei termini di correlato fisiologico o neurobiologico. Il tentativo, affinché sia possibile, dovrà quindi porre le radici su di un’ampia base congetturale che ne permetta e giustifichi un’indagine di natura neuropsicologica e neurobiologica.
Il Tempo
Volendo considerare il valore oggettivo del “tempo” in uno studio neurobiologico, lo si dovrebbe dapprima considerare come processo interamente fisiologico, o per lo meno del tutto connesso a qualche funzione comportamentale. Di fatto, ad oggi, del tempo se ne parla nei più disparati modi, molti dei quali spesso mutualmente escludentisi, come per esempio la funzione che ricopre nelle varie teorizzazioni della fisica moderna. A livello cognitivo il tempo è stato e resta tuttora, di difficile definizione, se non come un processo di sicuro inerente la coscienza e che si struttura come olistico e continuativo. A questa banale, nonché semplicistica, definizione è possibile affiancare un’ampia letteratura con il tentativo di ampliare e meglio definire il concetto. Se, tuttavia, si affronta la questione da un versante neuroscientifico, la definizione diviene ancora più complessa accorpando le difficoltà di natura psicologica alla questione neurobiologica e fisiologica dell’individuazione dei processi e degli schemi neurali che siano esplicativi della percezione del passaggio del tempo.
Volendo comunque fare un passo indietro risulta senza dubbio necessario affrontare il quesito su di un piano prettamente filosofico-scientifico, al fine di comprendere l’interezza dell’argomento nella sua natura trasversale. Su di un versante “fisico” il tempo si costituisce come processo perfettamente osservabile e misurabile attraverso strumenti più o meno precisi, e quindi come fenomeno incidente sulla fisica degli oggetti e dei fenomeni e che ne permette quindi la misurazione, soprattutto nei riguardi del movimento. Volendo togliere tuttavia la certezza posta negli strumenti, da noi stessi concepiti e quindi viziati dalla nostra stessa percezione e limitatezza sensoriale, quello che rimane è la natura soggettiva di un processo concepito appunto come fluido e continuativo. Di per sé non esistono certezze dell’esistenza di un “tempo” assoluto che si possa caratterizzare come “sostanza” alla stregua della materia o quant’altro costituisca l’universo. Esistono teorie che ne propongono l’esistenza, nonché un’inestricabile co-esistenza con lo spazio, altre che ne negano un’effettiva presenza. Quello di cui siamo abbastanza certi è che sul piano prettamente soggettivo, il valore del tempo si fa sentire eccome, in ogni azione svolta, ricordata e programmata. La domanda che ci si potrebbe porre a questo punto potrebbe essere: qualora fossimo a conoscenza degli esatti circuiti neurali (supponendone ovviamente l’esistenza) della percezione temporale, come si modificherebbe la nostra percezione della realtà a seguito di una loro alterazione di qualche tipo? Volendo fare una facile speculazione, in linea comunque con il ragionamento fin qui condotto, si potrebbe ipotizzare una percezione di singole immagine disgiunte, tutte perfettamente comprensibili, ma slegate tra loro. Una possibile indagine sulle regioni e funzioni implicate nella percezione temporale dovrebbe indubbiamente prendere l’avvio dalla corteccia prefrontale, indagando quindi come gli effetti della soppressione delle funzioni della memoria di lavoro possano incidere neuropsicologicamente sulla capacità di comprensione del tempo. Tuttavia, è ovviamente riduttivo considerare alla base di un processo tanto ampio e inerente numerose funzioni neuropsicologiche una sola area come la prefrontale, la quale secondo alcuni non soddisferebbe esaurientemente neppure il modello stesso della working memory. Tornando comunque alla nostra speculazione, possiamo giungere alla conclusione logica che quindi, per quanto possiamo saperne, quello che noi definiamo come “tempo” potrebbe essere unicamente una nostra funzione psicologica e una modalità con la quale gli eventi verrebbero elaborati e percepiti. Si potrebbe supporre quindi un funzionamento lineare che si esprima nell’acquisizione dell’informazione, soggettivamente esperita attraverso la memoria di lavoro; una modalità, evolutivamente preservata, di acquisizione dell’informazione, per lo meno a livello cosciente. Se dovessimo ipotizzare di riuscire a donare una coscienza propria ad un computer di capacità di elaborazione parallela, sarebbe interessante scoprire se tale qualità ne permetta la percezione lineare del tempo, proprio come lo percepiamo noi. Una riuscita del genere permetterebbe senza dubbio almeno di comprendere il ruolo della modalità di acquisizione dell’informazione nella percezione del passaggio del tempo.
Il piano filosofico scientifico
Al di la di questa introduzione, tuttavia, ad oggi non siamo ancora in grado, se non per gli esempi già citati, di ipotizzare strutture corticali implicate in funzioni almeno inerenti a tale questione, o circuiti neurali in grado di offrire un’esauriente spiegazione di come noi individui percepiamo il passaggio del tempo o di come possiamo averne consapevolezza. Tuttavia resta un caso noto, il quale può considerarsi al momento un trampolino di lancio per studi di questo genere, i circuiti neurali e le strutture proteiche dei nuclei circadiani. Ricerche su cellule umane e studi condotti sulla Drosophila hanno individuato strutture specifiche le quale sarebbero responsabili dei ritmi circadiani e le quali funzionerebbero in parallelismo con le funzioni psicologiche, comportamentali e ambientali relative al ritmo sonno-veglia. È stato osservato come di fatto il nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo anteriore sia adibito proprio a queste funzioni. Ulteriori studi tuttavia, hanno posto l’attenzione anche sul funzionamento neurobiologico dei neuroni responsivi agli stimoli ambientali e adibiti alla regolazione dei comportamenti relativi alle funzioni circadiane. È risaputo come alcune cellule neuronali, denominate appositamente cellule clock, vedano l’espressione proteica di per e tim (period e timeless), due geni connessi finemente con i segnali ambientali di luce e quindi con i ritmi circadiani. Questi studi hanno mostrato come la presenza della luce degraderebbe la proteina TIM la quale sarebbe fondamentale per l’accumulo della proteina PER. La necessità di livelli sufficientemente elevati di TIM si soddisferebbe al tramonto, ovvero quando la mancanza di luce ne permetterebbe l’accumulo e quindi il legarsi con PER. Una volta legate, le proteine si attivano ed entrano nel nucleo, inibendo l’espressione di alcuni geni e dei propri, causando così, verso il mattino, il drastico abbassamento dei propri livelli di trascrizione. Questo naturalmente ne provocherebbe l’inibizione della repressione della trascrizione genetica[1]. Quindi riassumendo se durante il giorno il segnale di luce inattiva le proteine PER e TIM, queste di notte si attivano entrando nel nucleo dove possono inibire alcuni geni. Quindi la scansione temporale da parte delle due proteine avverrebbe grazie ai processi che le vedono trovarsi tra il citoplasma e il nucleo. Di fatto, nel senso pratico, i processi determinati da questi due geni sarebbero inerenti all’output comportamentale nella Drosophila relativo al movimento oscillatorio, ovvero il comportamento che in tale mosca sancisce la caratterizzazione comportamentale dei due differenti momenti circadiani, in relazione con i segnali di luminosità ambientale[2]. In sintesi dunque siamo a conoscenza di un substrato neurofisiologico del ritmo circadiano sonno-veglia e di una connessione tra sintesi proteica e input ambientali specifici, tuttavia non siamo ancora a conoscenza di nessuna relazione tra la nostra consapevolezza temporale e substrati corticale, né tanto meno con livelli proteici o molecolari in genere. Questo certamente non basta neppure a supporre un circuito di questo genere, tuttavia data l’osservazione dell’esistenza di un circuito regolatore dei ritmi sonno-veglia e data l’esistenza di un processo di sintesi proteica influenzato direttamente da stimoli ambientali e determinante comportamenti circadiani, da qui è possibile la supposizione dell’esistenza non solo di specifici circuiti, ma anche di un qualche meccanismo biologico regolatorio per tale funzione. L’individuazione di un circuito specifico inerente la consapevolezza temporale è effettivamente di difficile supposizione vista la natura affatto sottrattiva del medesimo: se per processi neuropsicologici quali il linguaggio la funzione può essere “facilmente” localizzata con la sottrazione da ulteriori processi,quindi per esclusione, per quanto riguarda la percezione del passaggio del tempo la questione non sembra essere ugualmente risolvibile, vista la sua natura “trasversale”.
La percezione temporale esiste?
A questo punto, tuttavia, manca un’ulteriore considerazione fin qui non ancora affrontata, ovvero la possibilità che la percezione temporale non esista affatto. Potrebbe darsi, di fatto, che la nostra, soggettivamente indubbia, capacità di comprendere “il momento” (e non l’orientamento temporale), possa essere esclusivamente la risultante di diversi processi che lavorano in concomitanza. Si può supporre appunto che funzioni quali la memoria non siano solo processi “strumento” della consapevolezza temporale, bensì che costituiscano la medesima, sviandoci inevitabilmente nella sua ricerca. Se così fosse, si aprirebbe un’ulteriore questione di cruciale importanza, ovvero la possibilità che la concomitanza di diversi processi psicologici e neuropsicologici possano originare a livello soggettivo specifici processi, i quali potrebbero non possedere specifici substrati anatomici, ma piuttosto esprimersi in un arousal aspecifico. Dunque la somma contemporanea di memoria e attenzione e così via, darebbe origine alla capacità soggettiva di avere la consapevolezza del passaggio del tempo.
La ricerca di tale funzione è pressoché agli albori e quindi come molte altre ricerche di questo tipo risulta povera di dati se non quelli relativi a funzioni secondariamente connesse, come appunto, in questo caso, i dati relativi al ritmi sonno-veglia. È possibile ad oggi riferirsi al funzionamento neurobiologico del ritmo circadiano, o almeno ad una sua parte, per poter ipotizzare l’indagine di un più complessivo, e sicuramente suggestivo, funzionamento globale che possa finalmente suggerirci una chiara delucidazione sul processo del tempo. È indubbio, tuttavia, come tale strada sia ancora particolarmente lontana, su qualunque piano scientifico la si voglia affrontare.
Bibliografia
- [1] Chang D.C., Neural circuits underlying circadian behavior inDrosophila melanogaster (2006) Behavioral Processes
- [2] Kandel E.R., Schwartz J.H., Jessel T.M. Principles of Neuroscience (1991)