Artisti Illusionisti

Svelati alcuni trucchi cognitivi usati nell’arte

Gli artisti sono degli illusionisti visivi e in questo articolo vengono esposti alcuni di questi trucchi adoperati sia nel campo dell’arte che nelle neuroscienze della visione. Inizialmente viene fatto un quadro teorico generale sui trucchi cognitivi utilizzati dagli artisti. Successivamente vengono presentati alcuni esempi di rappresentazioni artistiche con delle illusioni visive e per ognuna delle quali viene fornita una spiegazione neuroscientifica sulle ragioni per cui spesso si cade in questi inganni. Infine, vengono illustrati ed analizzati alcuni esperimenti ideati da studiosi provenienti sia dal campo della scienza che da quello dell’arte creati con l’intento di produrre illusioni cognitive negli osservatori.

Introduzione

Bruno Munari (1997) affermava che per definire che cos’è l’arte è ideale il termine del giapponese antico “asobi” che significava sia arte che gioco. Infatti gli artisti tramite il loro lavoro giocano con i colori, con le forme, con le linee apparentemente e spesso inizialmente nate casualmente ma che hanno lo scopo di suscitare sensazioni o ricordi nello spettatore. Uno di questi giochi è quello di creare illusioni adoperando trucchi cognitivi ed è ciò che viene analizzato in questo articolo.

Come fanno notare i neuroscienziati Stephen L. Macknik e Susana Martinez-Conde (2012) i primi illusionisti visivi sono stati pittori e scultori. Infatti la scienza della visione che si prefigge di capire come vediamo sia dal punto di vista psicologico che biologico ha una lunga tradizione di ricerca nel campo dell’arte. Gli artisti infatti arrivano spesso intuitivamente prima degli scienziati a fare delle scoperte sulle illusioni cognitive. Certo è, come fa presente Stefano Mastraendrea (2015) ogni epoca storica ha proposto sistemi di rappresentazione differenti, che tenevano conto dello spirito del tempo e delle conoscenze nei vari campi del sapere. Ad esempio, già durante il Rinascimento l’arte stessa ha dato impulso a nuove scoperte scientifiche. Inoltre a partire dalla metà dell’Ottocento, un periodo costellato da grandi innovazioni scientifiche unito al diffondersi della corrente di pensiero filosofica del Positivismo -che rigettava ogni forma di metafisica ed aveva estrema fiducia nei progressi della scienza, che intendeva estendere il metodo delle cosiddette “scienze positive” ovvero delle scienze matematiche, fisiche e delle scienze naturali a tutti i settori dell’attività umana, tra cui ovviamente anche quello dell’arte- gli artisti seguivano e studiavano tali scoperte per poi applicarle nelle loro opere. Tuttora lo studio da parte degli artisti della scienza viene svolto in maniera da essere successivamente applicata all’arte.

Come fa notare Eric R. Kandel (2017) l’arte ha permesso di studiare molteplici aspetti della scienza della visione. In particolare, è importante tenere presente che il cervello umano quando guarda un dipinto fa ricorso inizialmente ad un processo bottom-up o dal basso verso l’alto, il quale viene implementato all’interno dei circuiti organici dell’osservatore -come il suo sistema nervoso ed i suoi sistemi sensoriali- e che consente l’attivazione di una capacità di riconoscimento delle raffigurazioni per esempio dei volti dei soggetti rappresentati. Successivamente il cervello umano fa ricorso ad un processo top-down o dall’alto verso il basso fornito dai processi cognitivi -come l’aspettativa, l’attenzione e le associazioni apprese. In generale ogni risposta formulata da un osservatore nei confronti di un’opera d’arte consta di tre processi principali: l’analisi cerebrale del contenuto pittorico e dello stile dell’immagine (meccanismo bottom-up), le associazioni cognitive top-down reclutate dall’immagine e le risposte emotive individuali top-down all’immagine. La pittura figurativa -i paesaggi, i ritratti e le nature morte- stimola l’attività cerebrale in aree che rispondono ad immagini di specifiche categorie interne alla mente di ogni spettatore dell’opera. L’arte astratta invece non attiva regioni dedicate a specifiche categorie. Esperimenti di tracciamento oculare effettuati quando si osserva l’arte astratta rivelano che il cervello umano tende a fare una scansione di tutta la superficie del quadro invece di focalizzarsi su caratteristiche salienti riconoscibili, contrariamente a quanto invece accade per l’arte figurativa. Un’immagine tanto più è astratta tanto più permette di fare libere associazioni top-down.

È essenziale tenere presente questi meccanismi cognitivi per capire (almeno in parte perché l’argomento è lontano dall’essere esaurito completamente e necessita di ulteriori studi) come gli artisti riescano ad ingannare lo spettatore tramite i loro giochi illusionistici.

Alcuni principi per le illusioni ottiche nell’arte

Di seguito vengono presentati alcuni trucchi illusionistici adoperati nell’arte.

Un esempio essenziale nelle illusioni ottiche come faceva presente Bruno Munari (1993) è il problema figura-sfondo di un’immagine, ovvero il rapporto che esiste tra la figura rappresentata ed il suo sfondo. Frequentemente in questi casi, sia con immagini realizzate in laboratorio che in quelle che è possibile trovare nella vita quotidiana, si manifesta il fenomeno delle cosiddette “doppie immagini” in cui all’interno di una stessa rappresentazione si trovano due figure ma che non tutti riescono a vedere. Infatti spesso per molti osservatori ne prevale una sola. In questi casi dunque per alcune persone è talmente difficile vedere entrambe le figure nella stessa immagine, in quanto una sola immagine prevale sull’altra, che si costituisce un vero e proprio disturbo semantico. A tal proposito sono esemplificative le celebri immagini bianche su fondo scuro di un “calice” o quella della “giovane e la vecchia”.

Gli autistici invece, come fa presenta Uta Frith (2012), riescono a cogliere tutti i dettagli che per persone normali è difficile cogliere e pertanto questi individui di solito non rimangono intrappolati nelle illusioni ottiche.

Ugo Volli (2003) afferma che gli esseri umani percepiscono il mondo facendo delle analisi valoriali. Quando ci si trova davanti ad un oggetto si fanno delle operazioni semantiche ed in particolare si compiono delle valorizzazioni, o meglio avviene un processo di costruzione delle assiologie valoriali che ogni individuo attribuisce a quell’oggetto. Il termine “valorizzazione” identifica il funzionamento di quella parte di mondo che s’intende analizzare e che viene realizzato attraverso delle opportune mediazioni semantiche che coniugano un certo oggetto con l’esperienza individuale del mondo e nello specifico tramite l’opposizione timica (quest’ultima deriva dal greco antico thymos che vuol dire “soffio”, “vita”, “spirito” ma in questa accezione significa “umore” e che secondo il punto di vista si articola nelle coppie dicotomiche “euforia /disforia” e “piacere/dispiacere”).

Su questa linea di pensiero già Johannes Itten (1982) faceva notare che i nostri sensi valutano sempre e solo mediante confronti, effettuando in particolare effettuando contrasti. Se queste differenze sono assolute si parla di “contrasto di opposti” o anche di “contrasto di polarità” ad esempio grande-piccolo, freddo-caldo, bianco-nero e quando questi si trovano al loro massimo grado di opposizione sono contrasti di polarità. Ciò vale per tutti gli elementi strutturali sia che siano linee, forme, colori ed anche per come questi elementi strutturali sono posti in relazione tra loro all’interno dell’organizzazione percettiva dell’opera, secondo le cosiddette “caratteristiche composizionali” (equilibrio, simmetria, dinamicità, ritmo e spazio). Questo però non significa che l’occhio umano non venga tratto in inganno. In tal senso è  esemplificativo il contrasto simultaneo ovvero quel fenomeno che si verifica tra colori vicini che si influenzano a vicenda, il che cambia la percezione di quei colori e lo si può ad esempio osservare contrastando uno dei colori primari con il suo rispettivo complementare con il risultato che questo accostamento aumenta la vivacità di entrambe le cromie.

Come fa presente Stefano Mastandrea (2015) uno dei problemi che ha afflitto per lungo tempo gli artisti è il fatto di rendere la tela bidimensionale con un effetto tridimensionale. Per far ciò hanno fatto ricorso a dei trucchi ottici che in arte vengono definiti “indici pittorici”, eccone di seguito alcuni.

Il chiaroscuro in cui le parti chiare di un’immagine sono percepite vicine mentre le parti scure risultano lontane. Un corpo solido che viene illuminato da una luce ha una parte in ombra: la parte illuminata è solitamente più vicina all’osservatore rispetto alla parte in ombra. I giochi di chiaroscuro, anche cromatico, forniscono un’illusione di profondità (che ovviamente in una tela bidimensionale in realtà non esiste).

La sovrapposizione ovvero quando una figura che è sovrapposta ad un’altra appare in primo piano e dunque più vicina. La figura parzialmente nascosta da quella sovrapposta compare in secondo piano e quindi più lontana. Tale fenomeno sfrutta la percezione della regolarità delle figure. L’occhio umano corregge in maniera automatica ciò che in realtà non è visibile completamente il che consente di vedere la figura che si trova al di sotto dell’immagine in primo piano.

La grandezza familiare avviene di solito con oggetti comuni in natura come alberi, persone o animali che hanno dimensioni note, appunto familiari. Se in una pittura sono rappresentate persone di dimensioni differenti, in base alla grandezza conosciuta vengono percepite le persone di dimensioni maggiori in primo piano e più vicine, mentre quelle più piccole risulteranno in secondo piano e quindi più lontane. Questo è possibile in quanto gli esseri umani sono in grado di operare questa collocazione spaziale in profondità grazie al fatto che si conoscono le dimensioni reali di una persona. Pertanto se in una raffigurazione pittorica si osservano delle dimensioni molto piccole si assume che siano di dimensioni normali ma collocate in lontananza.

Il ribaltamento è una delle tecniche più antiche, sviluppata nel tentativo di rendere verosimile la spazialità nel mondo reale e consiste nella raffigurazione del soggetto contemporaneamente in pianta ed in profilo. Questa tipologia di rappresentazione è tipica dell’arte egiziana in cui veniva attribuita importanza al riconoscimento degli oggetti dipinti e non tanto alla visione quale sistema di coerenza tra le parti. Con questo metodo si riproducevano le parti dell’oggetto o della scena più facilmente identificabili, poco importava se gli elementi risultassero contraddittori se raffigurati contemporaneamente. Di solito nella pittura egizia la figura umana, i volti ed i piedi erano disegnati di profilo mentre il busto era rappresentato frontalmente. Inoltre per dare l’impressione di profondità le figure venivano parzialmente sovrapposte.

La prospettiva, che deriva dal latino prōspicere, con il significato di “guardare avanti, vedere distintamente” e di cui se ne distinguono due tipologie: la prospettiva lineare e la prospettiva aerea. Questo argomento verrà trattato più approfonditamente nel prossimo paragrafo.

La prospettiva

La prospettiva lineare è stata scoperta durante il Rinascimento, quindi a cavallo tra il Quattrocento ed il Cinquecento, ed è un sistema ottico-geometrico di rappresentazione del mondo tridimensionale su una superficie bidimensionale. È stato codificato nei trattati degli artisti rinascimentali italiani come Filippo Brunelleschi (1377-1446), Leon Battista Alberti (1404-1472), Piero della Francesca (ca. 1415/1420-1492) e Leonardo da Vinci (1452-1519). La prospettiva lineare tiene conto di molti elementi attraverso i principi della geometria proiettiva -proiezione delle linee verso uno e più punti di fuga, ovvero del punto o dei punti in cui convergono tutte le linee perpendicolari al quadro prospettico, in altri termini è possibile dire che equivale alla proiezione sul quadro del punto di vista (inteso come l’occhio dell’osservatore), inoltre va tenuto presente per il punto di fuga passa la cosiddetta “linea dell’orizzonte”- e che sono rappresentati su un piano. Nello specifico il trucco della prospettiva lineare consiste nel fatto che tutte le linee orizzontali parallele al quadro e fra loro equidistanti restano parallele ma la loro distanza reciproca diminuisce all’aumentare della loro distanza dal quadro. Tutte le linee verticali parallele al dipinto restano verticali, parallele ed equidistanti se giacciono su un piano parallelo al quadro, invece se giacciono su un piano perpendicolare od obliquo al dipinto diminuiscono la loro distanza reciproca e si avvicinano con progressione al loro punto di fuga.

Tale scoperta fu rivoluzionaria ed inaugurò l’inizio dello studio da parte di artisti e di architetti di questo metodo ovvero di una tecnica applicabile nei loro disegni basata su leggi matematiche che consentisse una rappresentazione precisa delle cose, pur con qualche limitazione, e che andasse oltre alla sola imitazione della natura.

Non solo in Italia, ma anche nell’Europa settentrionale, come Germania e Paesi Bassi, diversi artisti hanno dato importanti contributi alla teorizzazione ed all’applicazione del sistema prospettico.

Per ottenere questi effetti alcuni artisti crearono da autodidatti delle strumentazioni ad esempio l’incisore-artista Albrecht Dürer (1471-1528) aveva ideato un’apparecchiatura con un’intelaiatura e il pittore fiammingo Jan Vermeer (1632-1675) utilizzava una camera oscura.

La prospettiva aerea si ha quando l’intensità cromatica degli oggetti diminuisce con la distanza. Gli oggetti più lontani nel campo visivo umano (ad esempio le colline in un paesaggio) appaiono velate e sfumate rispetto agli altri elementi vicini e tendono ad una colorazione azzurro-grigiastra. Uno dei primi artisti ad aver usato la prospettiva aerea per conferire un aspetto tridimensionale ai suoi dipinti è stato Leonardo da Vinci. Il fenomeno della prospettiva aerea è dovuto alla sospensione di particelle di umidità presenti nell’aria. Tanto più gli oggetti sono lontani tanto più i raggi luminosi devono attraversare maggiori quantità di particelle di umidità sospese nell’atmosfera e ciò determina la diversa colorazione degli oggetti più lontani in seguito alle diverse rifrazioni che subisce la composizione spettrale dei raggi luminosi. Infatti in una giornata con il cielo coperto in cui è presente una maggiore quantità di foschia le montagne lontane appaiono all’osservatore ancora più lontane di quello che realmente sono, mentre in una giornata con un vento freddo di tramontana che rende l’aria più pulita le montagne lontane appaiono all’osservatore più limpide e più vicine.

Stephen L. Macknik e Susana Martinez-Conde (2012) affermano che gli artisti fin dal Rinascimento hanno usato la prospettiva lineare dove due linee parallele, se rappresentate come convergenti, danno l’illusione della profondità e della distanza. Con questa scoperta si resero conto di poter far apparire ad esempio gli effetti atmosferici schiarendo toni e sfumature nei punti di allontanamento dall’osservatore. Usarono l’ombreggiatura, l’occlusione ed i punti di fuga per rendere i loro dipinti iperrealistici. Nei primi decenni del diciassettesimo secolo i pittori olandesi dipinsero nature morte con la tecnica del trompe l’oeil, che non a caso significa “ingannare l’occhio”. Queste tecniche (la prospettiva ed il trompe d’oeil) rendono le rappresentazioni naturalistiche assolutamente molto realistiche. A volte il trompe l’oeil veniva utilizzato su ampia scala per suggerire intere parti dove in realtà non c’era nulla. A tal proposito è esemplificativa la falsa cupola della Chiesa di Sant’Ignazio a Roma. La maggior parte dei visitatori della chiesa rimane sempre stupita nell’apprendere che questa spettacolare cupola non è reale ma è solo un’illusione in quanto è solo dipinta. Nel caso specifico questo inganno ha origini storiche legate alla costruzione della chiesa, infatti l’architetto che progettò la Chiesa di Sant’Ignazio, Orazio Grassi (1583-1654), aveva pianificato di costruire realmente una cupola ma morì prima della conclusione dei lavori e il denaro per la cupola venne destinato ad altro. Così, trent’anni più tardi, nel 1685, all’artista gesuita Andrea Pozzo (1642-1709), considerato un maestro della prospettiva, venne commissionato di dipingere una finta cupola sul soffitto sovrastante l’altare.

In questo periodo storico anche gli architetti cominciarono a manipolare la realtà, distorcendo la prospettiva e la percezione di profondità per costruire strutture illusorie che ingannavano la percezione. Non a caso infatti Filippo Brunelleschi, che dedicò gran parte della sua carriera all’architettura, pare sia stato lo scopritore di questa tecnica. Se si voleva far apparire uno spazio più grande di quello che è in realtà fosse bastava creare un’illusione ad esempio facendo apparire un porticato ben più grande di quello che fosse nella realtà. Un caso esemplare di ciò si ha a Palazzo Spada a Roma in cui Francesco Borromini (1599-1667) realizzò un porticato che sembrava molto più lungo di quello che fosse in realtà apparendo lungo ben trentasette metri in uno spazio di solo otto metri, inoltre sullo sfondo l’artista dispose una scultura di dimensioni apparentemente naturali che in verità era molto più piccola di quello che appariva all’occhio dello spettatore.

Il caso della Gioconda di Leonardo da Vinci

Il sorriso della Gioconda è una delle espressioni considerate fra le più enigmatiche ed elusive al mondo ma, come spiega la scienziata Margaret Livingstone (2000), la natura del sorriso si spiega con il funzionamento del sistema visivo umano.

Infatti quando fissiamo le labbra della Gioconda in realtà non scorgiamo nessun sorriso ma appena allontaniamo lo sguardo il sorriso si evidenzia. Se torniamo a fissare il sorriso della Mona Lisa questo sparisce nuovamente. Riusciamo a vederlo solo se non lo guardiamo direttamente, cioè se non lo fissiamo. Il fenomeno è dovuto al fatto che ogni occhio vede il mondo grazie a due aree distinte. Nella parte centrale in cui c’è la fòvea riusciamo a guardare i dettagli minimi, invece nella regione periferica, che circonda la fòvea, percepiamo i dettagli più grossolani, come ombre e movimenti. Quindi se fissiamo direttamente le labbra, la visione centrale non integra le ombre degli zigomi con quella della bocca ed il sorriso sparisce. Al contrario quando ci allontaniamo l’osservazione è meno dettagliata e con la visione periferica è possibile apprezzare le ombre degli zigomi che accentuano la curva del sorriso.

Il caso del litografo ed incisore Escher e la sua scala

Come faceva presente Bruno Munari (1993) la scala a chiocciola da un punto di vista visivo si rappresenta come la rotazione (che si definisce come il fenomeno secondo cui una forma gira intorno ad un asse che può essere all’interno od all’esterno della forma stessa) di un gradino e contemporaneamente una traslazione (intesa come la ripetizione di una forma lungo una linea che può essere retta o curva o di altra natura) di gradini lungo l’asse della scala.

L’incisore e litografo olandese Mauris Cornelis Escher (1898-1972) agli inizi della sua carriera incise scene realistiche tratte da ciò che osservava durante i suoi viaggi, successivamente invece si dedicò ed orientò le sue opere facendo appello all’immaginazione creando alcuni brillanti effetti ottici.

A tal proposito è emblematica l’opera di Escher del 1960 “Salite e discese”, in cui sono rappresentate file di monaci incappucciati che salgono o scendono all’infinito una scala impossibile situata in cima ad un tempio. Tale scala è impossibile in quanto si avvita su se stessa in un percorso interminabile. Questa illusione è dovuta al fatto che non si riesce a guardare la figura nel suo insieme, globalmente ma si tende a guardarla solo fissando lo sguardo su una parte specifica. Inoltre fissando lo sguardo su una parte specifica tutte le altre parti della scala che si trovavano alla periferia del campo visivo rimangono sfocate (si ricordi che qui si tratta di un’immagine figurativa quindi come si è detto nell’introduzione lo sguardo dell’osservatore si focalizza subito su caratteristiche salienti riconoscibili e non facendo una scansione globale dell’opera, come avviene nella pittura astratta). Quindi Escher aveva intuito che: se il sistema visivo umano riesce a vedere soltanto una zona alla volta, i piccoli errori gradualmente disseminati lungo l’intera struttura non risultano percepibili ad occhio nudo. Ciò sfida la percezione umana che faticosamente nel corso della sua evoluzione l’uomo ha acquisito e che fa apparire all’essere umano il mondo circostante conforme a regole inviolabili. Il cervello umano per costruire una percezione globale “cuce” insieme una quantità di percezioni locali. Sempre se la relazione locale fra le superfici e gli oggetti non contraddica le regole di natura, senza preoccuparsi se l’immagine che ne risulta può sembrare impossibile.

Il caso dell’Optical Art

L’Optical Art, talvolta abbreviata in “Op Art”, è un movimento di arte astratta che è nato intorno agli anni Sessanta del Novecento, contemporaneamente negli Stati Uniti ed in Europa con l’intento di esplorare vari aspetti della percezione visiva fra cui le forme geometriche, le variazioni di figure “impossibili” e le illusioni ottiche basate sulla luminosità, colore e percezione visiva. Gli esponenti, diversamente dagli artisti precedenti, non usavano le illusioni come semplici mezzi per raggiungere l’effetto percettivo desiderato, come la distanza o il volume. La loro è un’arte che non imita la natura, neanche produce delle vere astrazioni. In realtà partendo dalla ricerca scientifica sulla visione crea opere sulle illusioni ottico-geometriche, sui contrasti simultanei di colori (soprattutto primari), sulle regole matematiche della simmetria applicate alla composizione, alla produzione di un movimento reale mediante macchine e strumenti meccanici. Quindi l’obiettivo finale della Op Art è proprio l’illusione in sé.

Come fanno presente Susanna Martinez-Conde, Stephen L. Macknick, Xoanna G. Troncoso (2009) e Stephen L. Macknick e Susanna Martinez-Conde (2012), nell’esame delle opere dell’artista Victor Vasarely (1906-1997) ed in particolare della sua serie di “Quadrati nei Quadrati” si poteva osservare una strana illusione per cui i quadrati sembravano più chiari negli angoli e più scuri lungo i lati. L’effetto non aveva a che fare con la luminosità degli angoli poiché quando l’artista invertiva l’ordine cromatico dei quadrati e metteva all’interno non quello più chiaro ma quello più scuro e procedeva via via verso l’esterno con i più chiari, erano invece gli angoli a risultare più scuri. Pertanto l’illusione sembrava riguardare più il contrasto che la luminosità. Gli studiosi ne dedussero allora che il motivo fosse dovuto al fatto che i neuroni dei primi stadi del sistema visivo fossero più sensibili agli angoli, alle curve ed alle discontinuità dei bordi, in netto contrasto con i bordi dritti che fino ad allora erano ritenuti dominanti.

Altro esempio degli artisti optical è “Enigma” di Isia Leviant (1914-2006). Immagine statica composta da movimenti regolari ma che produce una forte sensazione di movimento. Dal 1981, anno di realizzazione dell’opera, ad oggi ha destato molto interesse tra gli scienziati della visione in quanto non si riusciva a capire se l’illusione che questa suscitasse dipendesse dal cervello, dagli occhi o da entrambi gli organi. Troncoso, Xoanna G., Stephen L. Macknik, Jorge Otero-Millan e Susanna Martinez-Conde (2008) hanno studiato il problema ideando un esperimento in cui chiedevano ad alcuni soggetti di osservare l’immagine dell’opera e segnalare esattamente quando il movimento illusorio accelerava o rallentava. Contemporaneamente i ricercatori registravano con strumenti ad alta precisione i loro movimenti oculari. Prima che i soggetti segnalassero un “accelerazione” il ritmo delle loro microsaccadi -il leggerissimo movimento che gli occhi compiono quando si mantiene lo sguardo fisso su un punto- aumentava. Tale esperimento ha dimostrato l’esistenza di un legame diretto fra la produzione di microsaccadi e la percezione. Quindi l’inganno di un movimento illusorio in Enigma partiva dagli occhi e non dal cervello.

Il caso del Puntinismo

Come si è accennato precedentemente a partire dalla seconda metà dell’Ottocento gli artisti seguirono con grande interesse le scoperte scientifiche applicandole nella realizzazione delle loro opere. Così ad esempio il pittore francese postimpressionista George-Pierre Seurat (1859-1891) venne influenzato dagli studi sulla teoria del colore del fisiologo Hermann von Helmholz (1821-1894) pubblicati nel 1867 nel libro “Ottica fisiologica” in cui veniva spiegata la cosiddetta “teoria tricromatica” secondo cui i recettori retinici sensibili risultano essere appunto sensibili solo a tre colori (rosso, verde e blu) e tutto ciò costituisce la base e l’ispirazione della tecnica compositiva definita “puntinismo”, il cui maggiore esponente fu appunto George-Pierre Seurat. Il lavoro artistico di quest’ultimo era rivolto alle modalità di scissione della luce secondo criteri scientifici mediante l’uso della tecnica del puntinismo che consisteva nell’accostare piccoli puntini di colori, prevalentemente primari, alla superficie del quadro con lo scopo di ottenere una resa cromatica ancora più vivida e brillante. Infatti da lontano, secondo la proprietà additiva della mescolanza dei colori, l’effetto cromatico dava luogo alla percezione di campi cromatici omogenei non più riconducibili ai puntini originali, mentre da vicino era possibile distinguere i diversi colori puntiformi. Pare che comunque Seurat non fosse soddisfatto della sua realizzazione in quanto si aspettava di ottenere colori più vividi e brillanti ed invece gli sembrava che nei dipinti realizzati con questa tecnica apparisse una leggera velatura che offuscasse le raffigurazioni. Comunque ciò non toglie nulla alla portata rivoluzionaria di questa procedura pittorica che conduce allo sfasamento totale dell’immagine generando un’illusione nell’osservatore.

Il caso dell’Iperrealismo

L’Iperrealismo, fenomeno derivato dalla Pop Art e dal Fotorealismo, si afferma intorno agli anni Sessanta del Novecento in pittura ed in scultura. Questi artisti utilizzano tecniche fotografiche e di meccanica della riproduzione della realtà per costruire nelle loro opere delle illusioni. Nello specifico gli iperrealisti prendono foto molto ingrandite per le pitture o calchi dal vivo per le sculture per realizzare quanti più dettagli possibili. I personaggi rappresentati sono persone, scenari urbani ed oggetti inanimati che traggono ispirazione dalle pubblicità e le inquadrature sono fortemente incentrate sul protagonista dell’immagine. Ad esempio lo scozzese ancora vivente Paul Cadden (nato nel 1964) riproduce a mano fotografie in primo piano molto dettagliate in modo tale che si evidenzino le rughe sul volto oppure uno sbuffo di fumo che fuoriesce da una sigaretta. Tutto appare assolutamente reale tant’è che è difficile distinguere le differenze tra il quadro e la fotografia di partenza. L’artista infatti affermava: “Sculture e dipinti iperrealisti non sono rigorose interpretazioni di fotografie, né sono illustrazioni letterali di una particolare scena o di un soggetto. Invece utilizzano elementi aggiuntivi, spesso sottili, per creare l’illusione di una realtà che non esiste o non può essere vista dall’occhio umano. Inoltre, si possono incorporare elementi tematici, emotivi, sociali, culturali e politici come un’estensione dell’illusione visiva; insomma una visione diversa rispetto alla scuola, più vecchia e considerevole più letterale, del fotorealismo”.

Il caso dei sovvertimenti di ciò a cui siamo abituati

È possibile riscontrare ciò negli oggetti artistici ready-made o già fatti che si è abituati a vedere quotidianamente in un determinato contesto ma quando quest’ultimo viene cambiato l’osservatore si disorienta.

Un caso esemplare lo dà il suo ideatore Marchel Duchamp (1887-1968), massimo esponente del movimento artistico Dadaismo (movimento artistico che promuoveva il nonsenso, con il fine di voler azzerare tutte le ideologie culturali dell’epoca che avevano portato alle atrocità della Prima Guerra Mondiale) con la sua celebre opera “La Fontana”, un comune orinatoio acquistabile in un qualsiasi negozio di sanitari che se viene girato diventa una fontana, e con una firma senza senso: R. Mutt. L’artista tentò di presentare la scultura alla mostra della Society of Independent Artistsma venne rifiutata nonostante l’artista facesse parte del direttivo. Nella rivista “The Blind Man” Duchamp descrive le sue intenzioni: “Se Mr. Mutt abbia fatto o no La Fontana con le sue mani non ha importanza. Egli l’ha scelta. Ha preso un comune oggetto di vita e l’ha collocato in modo tale che un significato pratico scomparisse sotto il nuovo titolo e punto di vista; egli ha creato una nuova idea per l’oggetto”. Attualmente l’opera è andata perduta. Duchamp, che diede spunto alla successiva “Arte Concettuale”, con i suoi ready-made intendeva rigettare la tradizione artigianale e le categorie artistiche tendendo a rendere gli spettatori consapevoli che le loro definizioni ed etichette non definivano l’arte ma semmai erano secondarie. Tutto questo per l’epoca costituiva uno stravolgimento della realtà.

Allo stesso modo Michael Duchamp per criticare la classica funzione del museo e del sistema dell’arte di allora capovolge ciò a cui l’osservare è abituato, creando addirittura scandalo (ovviamente all’epoca) anche con la sua propensione al calembour dissacrando un’icona dell’arte come la Mona Lisa. Egli pone sul viso della Gioconda baffetti e pizzetto e firma la sua opera non con il suo nome ma come L. H. O. O. Q. La critica che viene mossa in questo quadro non è nei confronti di Leonardo da Vinci anzi, Duchamp nella sua maniera vuole onorarla ma intende ridicolizzare gli estimatori ignoranti e superficiali che apprezzano la Gioconda esclusivamente perché tutti la considerano bella, conformandosi dunque acriticamente all’opinione comune.

Allo stesso modo il movimento artistico della Pop Art, che nasce negli anni Sessanta del Novecento, trae ispirazione ed origine dalla cultura di massa, dalla società dei consumi e dai molteplici linguaggi dei media come il cinema, la pubblicità, il design, il packaging ed i fumetti. Le opere sono in alcuni casi composte da oggetti reali quindi ready-made, in altri invece dalla riproduzione bidimensionale di oggetti come bevande o confezioni di cibo in scatola attraverso una simmetria di traslazione che occupa l’intera superficie dell’opera.

Sono esemplificative le opere di Andy Warhol (1928-1987) come, ad esempio le immagini multiple e serigrafiche della stessa persona, di personaggi famosi dell’epoca, quali Marilyn Monroe, Jacqueline Kennedy, Marlon Brando ed Elizabeth Taylor. Questi personaggi pur riconoscibili da tutti i fruitori sono resi essenzialmente irriconoscibili da Warhol perché sembrano privi di emozioni attraverso la serializzazione delle loro figure. L’artista realizza anche la serializzazione di oggetti inanimati di uso comune quali lattine di zuppa oppure dei fiori che pur essendo familiari al pubblico in questo modo si trasformano in oggetti poco familiari. Warhol si dedicò inoltre alla realizzazione di sculture che riproponevano in più dimensioni alcuni dei suoi lavori serigrafici come le confezioni di detersivo Brillo ed altri prodotti in scatola. Queste sculture erano oggetti commerciali molto comuni all’epoca che però a dispetto di quanto il fruitore è abituato a fare non devono essere aperti e consumati ma soltanto esperiti attraverso il canale sensoriale percettivo. In questo caso si tratta proprio dell’impossibilità di mettere in atto un comportamento funzionale che produce l’esperienza estetica (ciò ovviamente giustifica anche il prezzo così costoso dei suoi lavori) perché si tratta di un’opera d’arte. Il motivo di ciò si racchiude in ciò che Warhol affermava: “Quanto più si guarda la stessa cosa tanto più il significato svanisce, e ci si sente meglio”. Più spesso Warhol raggiunse il vuoto evitando la narratività e concentrandosi sul banale. È chiaro che Warhol aveva un intento polemico e critico verso le abitudini consumistiche e commerciali ed in questo modo effettua un sovvertimento della dimensione pratico-funzionale quotidiana.

Alcuni giochi cognitivi ideati in laboratorio

Stephen L. Macknik e Susana Martinez-Conde hanno inaugurato dal 2005 il Concorso del Migliore illusionista dell’Anno nel quale sono coinvolte persone provenienti sia dal mondo della scienza che da quello dell’arte. Il pubblico costituito da artisti, scienziati e gente comune deve selezionare le dieci migliori proposte dell’anno e tra queste successivamente vengono scelti i tre vincitori dell’anno.

Di seguito vengono descritti due casi che sono stati presentati nel corso di questi anni al concorso.

Il caso dell’Illusione della Torre Pendente, che nel 2007 vinse il primo premio, in cui sono rappresentate due immagini della Torre di Pisa identiche, seppure quella di destra sembra più pendente dell’altra. L’illusione si crea perché il sistema visivo umano tratta le due immagini come se fossero parte di un’unica scena. Normalmente infatti due torri si innalzano verso il cielo ad uno stesso angolo retto con il risultato che le loro linee prospettiche convergono gradualmente sempre più lontano dall’osservatore. Questa è una delle regole della prospettiva e che il sistema visivo elabora automaticamente. Siccome nelle immagini dell’Illusione della Torre Pendente le linee prospettiche non convergono, il sistema visivo è forzato a ritenere che le due torri accostate siano divergenti. Stephen L. Macknik e Susana Martinez-Conde affermano: “L’effetto illusorio in questo caso è così essenziale e così semplice che si stenta a credere che nessuno ne avesse parlato prima del 2007; è la dimostrazione che il mondo delle illusioni è pieno di frutti ancora da cogliere.”. Nelle attuali teorie percettive e cognitive grazie alla creazione di nuove illusioni alcune ipotesi talvolta si rafforzano, altre volte invece si indeboliscono oppure se ne ispirano di nuove. Infatti ognuna di esse contribuisce a migliorare ed a comprendere meglio i fenomeni della percezione e della consapevolezza umana.

Un’altra illusione, presentata al concorso del 2005 è quella dei “serpenti rotanti”. In questo effetto i serpenti sembrano ruotare, ma ciò che davvero si muove sono gli occhi dell’osservatore. Quando si concentra lo sguardo in uno dei punti più scuri al centro di ogni serpente il movimento rallenta fino ad arrestarsi. Se però si tengono gli occhi fissi in quel punto l’illusione motoria si blocca, ne consegue che il movimento dei serpenti deve essere legato ai movimenti oculari. Ad ulteriore conferma di questo è il fatto che se si sposta lo sguardo in vari punti dell’immagine l’effetto illusorio tende a rafforzarsi.

Invece il neuroscienziato di Harvard Richard Russell nel 2009 ha creato un’illusione mostrando due foto di visi umani identici la cui unica differenza era il grado di contrasto che faceva sembrare un volto femminile e l’altro maschile. La ragione di questo è che i visi femminili tendono ad avere un contrasto più marcato nella zona occhi, bocca ed il resto del viso, infatti ombretti, ciprie e mascara enfatizzano questa caratteristica. Lo studioso con questa illusione ha quindi scoperto che se si accentua un contrasto in un’immagine (come una foto) di un volto umano ad esempio facendolo apparire con più cipria, più ombretto e più mascara lo si rende più femminile, al contrario riducendo il contrasto lo si rende più mascolino.

Conclusioni

Si può concludere con la constatazione di quanto il mondo dell’arte e delle neuroscienze si aiutino a vicenda pur prefiggendosi obiettivi diversi. Infatti il primo ha lo scopo di stupire i fruitori artistici mentre le neuroscienze si prefiggono l’obiettivo di scoprire il funzionamento del cervello e della mente umana. Individuare il come ed il perché le persone sono tratte in inganno dalle illusioni visive è un esempio del modo in cui due campi professionali possano collaborare insieme ed un approfondimento di questo tema, che per ora non riesce ad essere esaustivo sarebbe ed è importante per entrambe le sfere di competenza.

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