Lo Stile Relazionale nel Disturbo Evitante di Personalità
Comunemente la personalità viene definita come l’insieme delle caratteristiche psicologiche in sostanza stabili, in gran parte inconsapevoli di una persona, che si esprimono in ogni aspetto della propria vita psichica, del comportamento e del rapporto con gli altri.
Quando gran parte dei tratti emozionali e comportamentali tipici di una persona, relativamente stabile e prevedibile nella vita quotidiana, si discosta dai limiti culturalmente attesi e accettati e quando si tratta di caratteristiche di personalità rigide e disadattive che causano disfunzioni sociali, ambientali o marcato disagio soggettivo, si può diagnosticare un Disturbo di Personalità vero e proprio.
Negli altri casi si parla appunto di tratti o stili relazionali che non possono essere ricondotti per nessuna ragione ad un vero e proprio disturbo
Le persone che soffrono del Disturbo Evitante di Personalità solitamente hanno molte difficoltà nella relazione con gli altri e se riescono ad entrare in contatto è perché sono sicuri di piacere e di non subire critiche.
Per loro è molto difficile instaurare una relazione spontanea e naturale poiché le maggiori emozioni che provano sono quelle della vergogna e della paura. La loro storia è costellata di esperienze di svalutazione e di giudizio, quasi sempre negative, in cui la loro autostima ne ha sofferto enormemente.
Per tale ragione, evitano di farsi coinvolgere in attività in cui è necessario un contatto interpersonale, sempre per il timore di essere disapprovati o di essere rifiutati. Anche le novità sono vissute in modo ansiogeno a causa del sentimento di inadeguatezza, e la tendenza a valutarsi poco attraenti o inferiori agli altri fa parte del loro stile relazionale.
La persona con Disturbo Evitante ha probabilmente esperito un tipo di attaccamento insicuro-evitante nella primissima infanzia; numerose ricerche hanno evidenziato che all’origine di tale disturbo potrebbero esserci storie sia di abuso fisico e psicologico, che di rifiuto ed emarginazione nel contesto del gruppo dei pari, che avrebbero contribuito ad uno sviluppo eccessivo del bisogno di accettazione e la conseguente difficoltà ad accettare le critiche.
Questo stile si è caratterizzato da esperienze negative circa la possibilità di ricevere aiuto nei momenti di difficoltà da parte del caregiver e, spesso, ricevendo dei rifiuti. Il bambino ha costruito le sue esperienze confidando soltanto sulle proprie risorse, in una posizione ogotistica, senza l’affettività ed il sostegno dell’altro. In questo modo l’ambiente viene lentamente oggettivizzato, e le relazioni e il rapporto interumano gradualmente sono scivolate sullo sfondo. Ciò ha condotto la persona evitante all’autosufficienza emotiva, fino a strutturare un falso Sé. Infatti, le persone con questo stile di attaccamento si comportano come se gli altri non esistessero, ritirandosi in un isolamento ideale.
In chiave gestaltica, il codice paterno che si traduce anche con l’esplorazione del mondo, appare molto incerto, poiché l’introietto di fondo che costituisce la convinzione su di sé è quello di non essere amato e invece rifiutato. Anche il codice materno appare compromesso, in quanto la fiducia ad essere accolti e compresi è praticamente assente. La persona evitante, quindi, si trova sospesa tra un senso di appartenenza quasi inesistente e il desiderio esplorazione fortemente inibito.
Egli percepisce che soltanto il suo sé è positivo e affidabile, mentre l’altro e l’ambiente sono ostili ed ostile. In questa esperienza intima e costante le emozioni più in figura sono la tristezza e il dolore.
Chi soffre di questo Disturbo prova costantemente un impulso profondo a stabilire relazioni intime, che non riesce a soddisfare in quanto il vissuto di inadeguatezza, il timore per il giudizio, la paura della critica e del rifiuto, sono talmente forti da inibirlo nelle sue modalità relazionali. La persona con un disturbo di personalità evitante parte dalla convinzione che l’altro ha sempre ragione, il giudizio esterno è sempre il migliore e che ogni comportamento, anche respingente, è comunque giustificabile, in quanto lui stesso si percepisce come persona indegna di ricevere rispetto e amore. L’altro è sempre migliore più competente e capace di lui.
Per evitare tutto questo, la persona con questo disturbo tende a non stabilire relazioni intime, ma mantiene esclusivamente legami familiari stabili e sicuri; spesso è impegnato in attività lavorative, ma difficilmente fa carriera. Dà la sensazione di non avere l’aggressività necessaria per muoversi nel mondo ed affrontare gli ostacoli e le problematiche che si presentano quotidianamente; anche per questo motivo tende a fare uso di alcool, che lo aiuta a sedare l’ansia e l’angoscia quando deve affrontare le situazioni interpersonali e sociali.
La sintomatologia che riguarda la personalità evitante, fino ad ora descritta, viene considerata in ottica gestaltica l’insieme degli adattamenti creativi, ovvero le modalità comportamentali e relazionali migliori, che l’individuo è riuscito a mettere in atto per affrontare le difficoltà nel suo contesto di riferimento.
Curare esclusivamente un aspetto della persona o identificare una parte di essa come la causa del problema (il sintomo) significa non vedere la persona nel suo insieme. La terapia della Gestalt, infatti, considera ogni espressione dell’individuo come parte di un tutto, includendo sia gli aspetti somatici che quelli psicologici. A questo riguardo, essa considera la salute e la malattia come parti interconnesse della persona, e rappresentano per il terapeuta della gestalt, “due polarità che coesistono e si strutturano, in primo piano e nello sfondo, a seconda dell’identificazione del momento”.[1]
Come già descritto in precedenza, la vergogna è un’emozione che la persona con disturbo di personalità evitante vive costantemente, ed essere esposto allo sguardo degli altri lo mette molto a disagio in quanto percepisce che la propria inadeguatezza potrebbe essere vista. Il tipico rossore sulle guance è indice di un’energia retroflessa che non riesce a scaricarsi nell’ambiente, provocando una serie di reazioni neurovegetative e risposte psicosomatiche. Ogni attivazione di tipo emotivo e ogni movimento verso il mondo rappresenta una difficoltà per le persone evitanti, poiché le costringe ad esporsi e rendersi più visibili rispetto al loro contesto.
Le persone con questo stile relazionale tendono a coltivare interessi ed attività solitarie, come ad esempio la lettura, o che non implicano necessariamente un contatto con gli altri (i social network). In quest’ultimo caso, molti studi hanno infatti evidenziato come alcune emozioni – tra cui la vergogna – non vengono contattate ed espresse attraverso l’uso delle chat.
L’evitamento è una modalità di protezione da tutto ciò che può provocare un disturbo, che provenga sia dalle situazioni reali che dalle proprie percezione ed emozioni negative. Tale comportamento non permette di fidarsi dell’altro che potrebbe in qualsiasi momento divenire la causa della sofferenza esistenziale della persona evitante.
Molto spesso, sono costretti a ridurre al minimo i contatti con la realtà, fino ad adottare uno stile di vita con pochissimi stimoli, contribuendo all’eventuale insorgenza di un quadro depressivo. Come abbiamo detto, per queste persone è molto difficile stabilire una relazione e se ciò avviene, tendono ad avere un comportamento sottomesso per la paura di perdere l’altro e di rimanere soli. Il loro atteggiamento in questo caso diviene dunque tenace, assecondando l’altro per evitare l’abbandono.
Possiamo ipotizzare che questo tipo di attaccamento sia generato da un introietto nell’infanzia del tipo: «l’ambiente è inaccessibile, non sono all’altezza, sarà così per sempre, devo farcela da solo».
Queste persone sono particolarmente sensibili alle sensazioni negative e non riconoscono invece le opportunità e gli eventi positivi. La loro consapevolezze è molto bassa, e sono costantemente centrati sul giudizio degli altri perdendo il contatto con loro stessi.
II ritiro è la posizione più comoda e sicura per il persona evitante, e benché desideri fortemente essere accettato, non riesce a spostare i suoi confini in modo fluido e spontaneo, per raggiungere una confluenza funzionale, perché lo esporrebbe ad un ennesimo rifiuto. La retroflessione viene utilizzata per non mettere in atto quei comportamenti che potrebbero avere conseguenze dolorose e, quindi, il pensiero e la razionalizzazione divengono una modalità per contattare l’esterno.
Utilizza la proiezione per scaricare nell’ambiente la paura e la vergogna di essere umiliato. Agisce esitando e con timore, e vive il contatto in maniera fortemente ansiogena, che si traduce molto spesso in modalità paranoiche.
Il lavoro in terapia è orientato ad aumentare la sensibilità delle persone evitanti per le sensazioni piacevoli, permettendogli di consapevolizzare le esperienze legate alla soddisfazione, al successo e la piacere. Il terapeuta gestaltico sostiene il paziente anche per ciò che riguarda i vissuti legati alla sofferenza e al dolore, focalizzando i processi di simbolizzazione per quello che riguarda le cognizioni negative e gli introietti. Per tali ragioni, la terapia dovrebbe procedere con pazienza e rispetto per i tempi del paziente, cercando di instaurare una relazione priva di giudizio e in grado di sostenere il livello emotivo caratterizzato dalla vergogna e dalla paura. L’appartenenza e la differenziazione sono temi fondamentali e delicati per la persona evitante e, per tale ragione, il terapeuta procederà cercando di rinforzare ogni minimo movimento del paziente verso l’altro, enfatizzando i sentimenti di fiducia ed empatia e, conseguentemente, mostrandogli come l’altro possa diventare una risorsa e un’opportunità nei momenti di difficoltà quotidiana.
Bibliografia
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NOTE
[1] Menditto M. La diagnosi secondo la Gestalt Psicosociale, in SIGnature, Roma 2003.